Cenni storici sul processo di unificazione Europeo
La costituzione di entità statali o parastatali
che comprendessero l'intero territorio europeo può essere fatta risalire a
periodi storici ben antecedenti rispetto alla fondazione dell'Unione europea.
Il primo organismo di tale genere è certamente l'Impero Romano,
che tuttavia non condivideva la medesima estensione geografica dell'Unione
(essendo incentrato sul mar Mediterraneo); inoltre le conquiste
territoriali romane dipendevano dalla potenza militare dell'Impero, e le
province annesse dovevano sottostare a un'amministrazione statale fortemente
centralizzata.
Esempi successivi includono l'Impero dei Franchi
di Carlo Magno,
il Sacro Romano Impero (una struttura meno
omogenea, che era caratterizzata da un'amministrazione decentrata) e l'unione doganale
che si venne a creare sotto il dominio di Napoleone dopo l'anno 1800.
Una delle prime proposte di riunificazione
pacifica del continente sotto l'egida di un'unica istituzione sovranazionale fu
avanzata dal pacifista Victor Hugo; a ogni modo, l'idea cominciò a prendere
fortemente piede solamente dopo le due guerre mondiali,
guidata dalla determinazione a completare rapidamente la ricostruzione
dell'Europa ed eliminare l'eventualità di nuovi, futuri conflitti fra le sue
nazioni. Esemplare in tal senso fu il Manifesto di Ventotene, redatto al confino da Ernesto Rossi
e Altiero Spinelli.
Furono fondamentalmente considerazioni di questo
tipo a portare, nel 1951,
la Germania dell'Ovest, la Francia,
l'Italia
e gli stati del Benelux
a istituire la Comunità Europea del Carbone e
dell'Acciaio, entrata in vigore nel 1952.
La prima unione doganale fra paesi europei, la
cosiddetta Comunità Economica Europea, fu istituita
mediante il Trattato di Roma del 1957 e implementata nel 1958; successivamente
rinominata Comunità europea, è stata uno dei "tre
pilastri" dell'Unione europea, secondo i dettami del Trattato di Maastricht che ha introdotto l'unione
politica, nei campi della Giustizia e affari interni e della Politica estera e di sicurezza comune.
Unità e scissione sindacale nel dopoguerra
La prima esperienza unitaria ebbe inizio nel giugno del '44 con il Patto di
Roma e la costituzione del sindacato unitario Cgil promosso da un accordo tra
le componenti comunista, socialista e democristiana (prosecuzione dell'unità
interclassista del CLN). L'orientamento della politica sindacale risultato da
questa convergenza unitaria non tardò a manifestarsi con la ripresa
dell'offensiva capitalistica: anche allora le "superiori esigenze"
della ricostruzione e il ricatto della rottura dell'unità operavano come
elemento di pressione nei confronti di una base combattiva e non disposta a
subire passivamente le richieste della Confindustria, che, invece, la Cgil
unitaria accolse coi contratti del '45 e '46. Assai prima che le
"sinistre" fossero escluse dal governo, l'unità sindacale si andava
svuotando per l'influenza esercitata dalla borghesia e dal suo corso iniziale
di ripresa all'interno dell’"unitario" movimento operaio ufficiale
attraverso la pressione sulle componenti sindacali dell'ex-CLN più direttamente
legate alla logica capitalistica e per la contraria pressione, da parte della
base operaia tradizionalmente più combattiva, per "contrattare",
perlomeno, qualcosa di consistente, in termini di salari, norme di lavoro,
occupazione e… "potere" in cambio della disponibilità a fare "il
proprio dovere" sull'altare della ripresa stessa.
La rottura non tardò a venire nel '48 e all'inizio degli anni '50 nacquero
la Cisl e la Uil. Il loro programma era caratterizzato chiaramente in senso filo-padronale e governativo (significativo,
ad es., che uno degli elementi costitutivi del "nuovo sindacato"
fosse un NO deciso allo "sciopero generale che costituisce un atto
eversivo in quanto paralizza la vita del paese"). Le attuali posizioni di Cisl e Uil hanno un profondo ed inequivocabile radicamento nella loro
tradizione: queste confederazioni
nascono già "scissioniste" rispetto agli interessi del proletariato.
Gli anni '50 furono quindi complessivamente segnati da un clima di forte
repressione antioperaia, dalla divisione sindacale (accordi separati
Confindustria-Cisl e Uil) e dalla politica di rigida centralizzazione
contrattuale che determinò la latitanza del sindacato dai luoghi di lavoro. Il
giudizio operaio sui sindacati filopadronali si sostanziava intanto di sempre
maggiori e significativi elementi; nel '62 gli operai di Torino espressero praticamente questo loro giudizio con
l'assalto alla sede Uil di Piazza Statuto. Ma già nella seconda metà degli anni
'60 iniziò una progressiva ricucitura dei rapporti fra le tre confederazioni,
l'unità d'azione diventava un dato caratterizzante l'iniziativa sindacale.
Il veloce sviluppo economico e la
grande ondata di lotta del '68-'69 incidevano sugli stessi sindacati,
fin dentro alla Cisl e alla Uil, che, sotto la spinta delle categorie operaie,
svilupparono ampi processi di ridefinizione e "radicalizzazione", non
senza rotture e contraddizioni notevoli; e così sull'onda delle lotte realmente
unitarie alla base si rideterminavano anche i rapporti fra le tre
confederazioni; fino al punto di prospettare la possibilità di un’"unità
organica" di costruire un sindacato unitario. I Consigli generali di Cgil,
Cisl e Uil fissarono per il 1972 la data di scioglimento delle singole organizzazioni
e per il 1973 il congresso di unificazione. Ma queste date rimasero - e non potevano che rimanere - sulla
carta: la rappresentanza di interessi sociali distinti, le diverse strategie
sindacali e politiche, le diverse tradizioni non rendevano possibile, neanche
allora l'ambizioso progetto di unificazione. Al posto dell’"unità
organica" nel '72 si formò la più modesta Federazione Unitaria, il
processo di unità aveva raggiunto il suo culmine.
L'unità sindacale era nata su un ciclo economico in espansione che permetteva
delle "concessioni" da parte del capitale; dal momento in cui, dalla
metà degli anni '70 e in modo progressivamente più acuto negli anni '80, quel
ciclo economico si è andato esaurendo e al posto delle "concessioni"
è subentrato un attacco sempre più duro alla classe, quell'unità ha perso le
sue basi di esistenza. Un conto infatti è seguire e "controllare" la
radicalizzazione proletaria in periodi in cui è possibile una qualche forma di
"redistribuzione dei redditi", altro è farlo in periodi in cui la
borghesia, per salvaguardare e rilanciare il profitto, deve attaccare in tutti
i campi il proletariato. E la crisi stessa rende via via impraticabile l'unità
sindacale: interessi operai e interessi borghesi si divaricano, gli spazi di
mediazione si riducono, riemergono le vecchie e mai scomparse differenze di
fondo fra le confederazioni, si accentuano le divaricazioni. I sindacati
storicamente filopadronali e filogovernativi si attrezzano organicamente a
contrastare la possibilità di una radicalizzazione della classe, mentre le
forze "operaio"-borghesi possono, in certi casi, essere spinte
persino ad anticiparla e promuoverla, proprio per dar forza alla propria
prospettiva "operaia"
di gestione del sistema borghese (che è questione non solo ideologica, ma di basi sociali di riferimento, e
supporto).
La vicenda della scala mobile ha rappresentato, in questo senso, un primo
ben preciso indicatore. Cisl e Uil accettano "tranquillamente" il
taglio della scala mobile, si schierano apertamente col fronte padronale e
governativo e sabotano attivamente quello proletario. La Cgil, in quanto forza
"operaio" -borghese, non può aderire all'intesa con il governo pena
l'impossibilità di mantenere un rapporto con la sua base sociale, in quanto
quell'accordo (senza concessioni!) non offre alcuna contropartita immediata e,
anzi, impone il metodo del "decisionismo" governativo, rompendo con
la prassi della "ricerca del consenso".